martedì 8 ottobre 2013

Raccontare l'Arte: Claudio Santamaria

La "voce" di Claudio Santamaria 


Seduti sotto una delle palme che fanno da cornice ad una Piazza Quercia ormai deserta e illuminata da una luce ambra, incontro Claudio Santamaria.
A Trani per il TIF con il suo concerto jazz è una chiacchierata che ha gli stessi colori di quella che ho già definito essere la musica del flusso di coscienza. 
Il rosso e l'arancio. Passione e calore. 

Il rosso della passione che anima la sua vita e il suo lavoro e l'arancio del calore della coccola che utilizza nel proteggere tutto ciò che gli appartiene.

Parte da un liceo artistico romano, dove pensa di aver interesse per l'architettura, si trova con passione ad approcciarsi ad una scuola di teatro e doppiaggio. La sua timidezza lo porta, solo in prima istanza, a dedicarsi al doppiaggio perché grazie ad esso è possibile far risuonare quella "capacità della voce di dare forma ai tratti psicologici" e la voce, la recitazione diventeranno poi lo strumento per la sua comunicazione ad essere che declina a teatro, al cinema, nel canto e nella preparazione degli audio-libri riuscendo, in ognuna di queste, ad essere e ad essere profondo e credibile, senza mai dimenticare l'importanza del corpo nei movimenti e dello sguardo cioè ogni cosa che viene animata dall'anima e che ci fa essere essenze pure.

Tanto studio e assoluta dedizione. Gli chiedo quando si sia reso conto che questa sua passione poteva diventare un mestiere e la risposta ha a che fare con la necessità viscerale, con la scelta di poter fare una cosa per assoluto piacere personale. 

E fare l'attore per lui, percepisco essere quello di portare avanti qualcosa che ha a che fare non solo con la sua vita interna ma che gli concede la possibilità di mettere in circolo emozioni e sensazioni che ama condividere ed è stato chiaro osservandolo nella sua disponibilità con le persone che incontra. 

Leggendo alcuni cenni biografici, salta all'occhio  - troppo e purtroppo abituati all'assenza-  la presenza di innumerevoli laboratori di formazione che sanno di serietà, messa in discussione continua e ricerca come se una perfezione non venga mai raggiunta, quella perfezione per piacersi ancor prima di piacere.

Il suo lavoro è continuo e caratterizzato dalla voglia di essere pronto e preparato ad affrontare quei ruoli che sceglie con cura, che prepara con precisione e rappresenta con creatività; legato al metodo Stanislavskij dove per diventare quella maschera devi prima essere la stessa.

La grandezza di un uomo, a prescindere dal mestiere che faccia, è data a mio avviso dalla sensazione trasmessa della semplicità e della naturalezza nell' essere grandiosi ed è quello che accade con lui. 

Se sei, e sei davvero, non hai bisogno di raccontarti ma il racconto della tua vita è lo scambio di caratteristiche profonde e definisce la grandezza in modo commuovente. 

Disquisiamo a lungo sul concetto di "merito" quando gli attribuisco la responsabilità di quello che è diventato e lui, citando un concetto di Gurdjieff sostiene d'essere responsabile solo della metà perché il resto prescinde dalla volontà individuale. Il maestro scriveva: "tutto dipende da tutto, tutte le cose sono collegate, non vi è niente di separato. Tutti gli avvenimenti seguono dunque il solo cammino che possono prendere. Se le persone potessero cambiare, tutto potrebbe cambiare. Ma esse sono quelle che sono, e di conseguenza le cose, anche esse sono quelle che sono." Sarà, ma io ho continuato ad affermare, pur avendo assoluta stima per Gurdjieff, che la responsabilità individuale, e quindi la sua nell'essere diventato l'attore che tutti apprezzano, è soprattutto individuale. 

Uno scambio che sa di surreale in un periodo in cui si fa a gara ad appropriarsi di meriti ed eccellenza e l'umiltà sembra essere sconosciuta.

Claudio è, poi è timido, umile e riservato, come chi è in grado, attraverso la maschera attoriale di far traspirare emozioni vere, e giochi credibili. Lo aspettiamo, curiosi, nel prossimo ruolo che ha scelto di vivere.

#traniinternationalfestival #tif #domaniandriese #tuTIFatti

Raccontare l'Arte: Fabrizio Bosso



Fabrizio Bosso e la capacità di regalare “bellezza”

Ed è alla fine del concerto “Four friends in Bari”, incontro Fabrizio Bosso.
Ci accomodiamo all’ interno di questo salone fatto di pietra e dettagli blue. I tavoli sono ancora coperti da delle tovaglie, scegliamo quella con meno briciole che sono deliziose dopo una scorpacciata di buon pane e io, ascoltandolo, ho fatto una scorpacciata di emozioni in musica.
Disponibilissimo a rilasciarmi un’intervista parte con il suo racconto.
In realtà non ha bisogno di alcuna presentazione perché per lui parla il suo nome che ormai da anni è sinonimo di Jazz, in tutto il Mondo.




Ogni storia ha bisogno di un inizio e io non posso prescindere dal chiedergli da dove sia partita questa passione ed è piacevolmente disarmante ricevere quella risposta che ti attendi a supporto delle emozione che arrivano quando è sopra un palco ad imperare con la sua tromba. 



La passione per questo strumento nasce con lui e con un padre musicista “ho iniziato a suonare per imitazione. A tre, quattro anni suonavo trombe in plastica fino a che all’ età di cinque anni me ne hanno regalato una vera” e a sette inizia a studiare musica. “Non vorrei sembrare arrogante ma ho capito quasi da subito che poteva essere la mia vita” e quale arroganza migliore sentir parlare un uomo che ci regala, attraverso delle note che prendono forma e consistenza, dei racconti che sanno di rosso, bianco, di voli infiniti, di malinconia e abbracci intensi.



Riconoscere il proprio talento e poterci lavorare è una capacità che non tutti posseggono. Consapevole di questa si trova, bambino, a studiare per poche ore al giorno i brani classici e poi, presi i dischi di sua madre, ad improvvisare sulle note dei brani di Mina, Gino Paoli, Ornella Vanoni, Lucio Battisti.



Il jazz non l’ha mai davvero studiato e mi domando come si possa studiare questa musica che, per eccellenza, rappresenta l’improvvisazione di un inconscio consapevole pari a quel “flusso di coscienza” tanto caro a James Joice, Virginia Woolf e non solo.



Come ogni vita, che tale può essere definita, fatta di momenti caratterizzati da tinte forti più o meno vivaci, Fabrizio mi racconta dei suoi momenti difficili ma con forza ci tiene a sottolineare “non ho mai pensato di smettere di suonare” e con un sorriso imbarazzato e quasi sottovoce, come se fosse una colpa, aggiunge “è l’unica cosa che so fare”.



È una curiosità diffusa, di certo è la mia, quella di scoprire cosa passa nella mente di un musicista durante i concerti.

Ci sono momenti che sono emotivamente forti, dati dalla gentile rarità, durante i quali la sinergia tra i musicisti sul palco e il pubblico lo portano a non pensare a nulla e quindi “il top, mentre suono, è non pensare a nulla” è la musica che lo porta ovunque senza essere “distratto” dalla sequenza delle note.
Ogni evento, seppur negativo, gli lascia la sempre maggior consapevolezza di essere, in quell’ assoluto variabile che caratterizza la vita stessa.



Esiste una sequenza di note in grado di poterti rappresentare? Ci pensa, respira e “In a sentimental mood” che ha proposto questa sera “è una sequenza che mi mette in pace”.



Esiste un’immagine in grado di rappresentarti? Sorride e poi con uno sguardo d’imbarazzo parla della porta che ha preso in faccia qualche giorno fa. Mi fa piacere scrivere questo che è un racconto confidenziale, non me ne voglia, perché mi ha fatto pensare a questa voglia infinita di crescita, il non sentirsi mai arrivato, il voler imparare ancora tanto e il migliorarsi. È difficile pensarlo essendo Fabrizio Bosso.


L’arte che produce è e decidere di metterla al servizio degli altri, non solo come mero momento di relax e divertimento, fa di Fabrizio non un personaggio ma una persona che instancabile produce. 


L’arte è arte solo se cura, sostiene Alejandro Jodorowsky e lui, dedicandosi ai familiari dei bambini ospedalizzati di “Casa Oz” di Torino, ai concerti improvvisati per i bambini africani e la voglia di tornarci per regalare loro un’esperienza, “per portare la musica in posti dove non è mai arrivata” mi fa tornare a casa con un sorriso profondo.


Le cose belle esistono, basta saper guardare.


#ristoranteumaniandria #domaniandriese

Raccontare l'Arte: Roberto Latini

Una scelta, consapevole e forte, mi porta verso la decisione di incontrare Roberto Latini.
Molto più che in altri momenti già trascorsi, sembra difficile contenere questo nome all'interno dell'etichetta di Attore. La paura è di far perdere le sue sfumature essenziali, difetto profondo, contenuto dell' etichetta stessa, modus operandi diffuso incautamente.


Roberto Latini porta nei teatri italiani, tra gli altri, "Noosfera Museum" che ho avuto modo di vedere durante la diciassettesiama edizione del Festival Castel Dei Mondi. "Noosfera" è un programma e "Noosfera Museum" è quella che egli stesso definisce "il terzo movimento"; "Museum immagina un approdo possibile all'isola di una scena in cui sono trascorsi già tutti i giorni felici". Per Roberto Latini andare in scena è una duplice perdita. è essere sconfitti. è lasciar andare.

Il suo teatro è in potenza. è ciò che accade.

L' hic et nunc della costruzione del silenzio è il filo che anima il testo nella scelta di parole ripetute e cadenzate. Rivolte e riprodotte a creare musica e interrogativi penetranti. Ciò che è in divenire, su travi spolverate da terra che profuma di pioggia, non è una rappresentazione ma un invito a prendersi; uno scambio che ha i tratti forti della necessità.

"In silenzio e in coro" , questo è. Qualità al tacere, quindi. Al tacere carico di respiri che fluttuano e si scambiano. Un legame che si costruisce con unicità tra un uomo, Roberto Latini, in grado di imperare poeticamente la scena, e coloro i quali hanno accettato d'esser "presi". I respiri fluttuano e le Anime sono tutte su quelle travi intrise di terra che sa di radici, che sa di appartenenza.  

Non sarebbe sufficiente questo per eliminare la distanza, che alcuni teatranti macchinosamente preparano, tra attore e spettatori? Credo che una chiave, di lettura, potrei prenderla a prestito tra quelle presenti sulla scena che scandiscono il tintinnio dell' esigenza del fare, del dover fare: l'assenza nella capacità di giocare. è possibile farlo quando si ha consapevolezza. La consapevolezza fa da fondamenta alle regole, importanti e indispensabili per Roberto, che il gioco possiede per esser definito tale e che lo rendono, come diceva a ragione Winnicott, "una cosa seria".

Gioca e sente forte il peso della responsabilità della proposta che si contrappone, per valenza, alla rappresentazione che per lui, percepisco essere, non fondamentale.

Sembra quasi un ossimoro ma trattando di un poeta che dipinge, attraverso se stesso, quadri in viaggio, non ho timore ad affermare che Roberto non produce Arte per mostrare se stesso. Il suo teatro non lo rappresenta, non è il suo fine; lui ci concede la sua ispirazione.


Roberto agisce sulle travi, tanto quanto sulla scena teatrale, con libertà politica, purezza emotiva e produttiva e prova concreta ne è il suo Fortebraccio Teatro.


...e se andare in scena significa, anche, "lasciar andare", aspetto con fermento e necessità emotiva di essere presto invitata ad un nuovo incontro che -con cura, attenzione, dedizione, professionalità assoluta -propone, nella meta dell'infinito, il percorso del viversi nell'agire la vita.

#domaniandriese domaniandriese.it  #festivalcasteldeimondi2013