C'era
una volta, in una paese di poche ma docili anime, un cagnolino di nome Otto.
Otto
era grande e nero con un pelo morbido, morbido; era il cane del paese. Tutti gli
volevano bene, soprattutto dopo che aveva deciso che sarebbe stato l’ amico di un
“bimbo” tanto triste e solo di nome Flefy.
La
vita non era stata tanto buona con Flefy; i suoi genitori erano scomparsi in
circostanze misteriose e lui era rimasto solo in casa protetto dall'affetto dei
paesani che cercavano di accudirlo da lontano, senza essere troppo invadenti
anche perché il piccolo Flefy era taciturno ed estremamente riservato. Era
difficile avvicinarsi a lui.
Come
tutte le mattine, verso le 11:00, anche quella mattina di primavera Flefy uscì
di casa, con la sua bicicletta, per comprare del pane; avrebbe percorso la
stessa strada di sempre, quella che percorreva ormai da anni, avrebbe visto le
stesse case, avrebbe salutato le stesse persone. la signora Marietta, con il
grembiule a fiorellini che occupava il suo tempo nella meticolosa pulizia della
verdura raccolta durante la solita passeggiata alle prime luci dell’alba che
lei chiamava “rilassante”, che gli avrebbe detto la solita frase: “tutto bene
questa mattina, Flefy!? Pulisco della verdura freschissima ne vuoi un po’?” e
lui gli avrebbe dato la solita risposta:”no, grazie. Buona giornata a lei
signora Marietta” con la sua voce sottile e esile proprio come il suo
corpicino. Avrebbe guardato con attenzione e imbarazzo la vetrina di quel
negozietto “dolci e delizie” tanto piccolo ma con una vetrinetta troppo
invitante e sempre ben sistemata. Avrebbe salutato tutti con un sorriso e si
sarebbe fermato a guardare il campanile della chiesetta di paese…aveva scoperto
un punto dal quale riusciva a vederlo tutto. Tutto nel suo splendore. Seduto ai
gradini di una casetta con tante piante e tanti fiori che riusciva a mettere
allegria anche in inverno. Era la casa di nonna Rosa, la nonna del paese. 85aa
portati con eleganza, fierezza e con la dolcezza della saggezza e dell’esperienza.
Ma
quella mattina c’era qualcosa di strano nell’aria…forse una luce diversa, per
tutti era un giorno come tanti, non per Flefy. Per Flefy era un giorno
speciale. Non sapeva spiegarselo né riusciva a notare qualcosa di realmente
diverso. Una sensazione, ecco, pura sensazione.
Quel
giorno, avrebbe anche rivisto quel campo pieno di margherite che tutte le
mattine guardava ma… ”oggi ha qualcosa di diverso” disse tra se e
inspiegabilmente, come rapito dallo splendore di quel panorama poggiò la sua bici
ad un albero e si mise a correre. Il vento gli faceva il solletico e il sole lo
accarezzava amabilmente, iniziò a rotolare, era felice, molto felice poi....
una
nuvola grande oscurò il suo volto, un volto dai colori troppo candidi e docili,
la nuvola non era nel cielo ma nel suo cuoricino.
Gli
vennero alla mente tutti i momenti belli trascorsi con il suo papà e la sua
mamma, quando la domenica pomeriggio trascorrevano il loro temo insieme. Lui
giocava con il suo papà mentre la sua mamma, protetta dall'ombra di un albero, dipingeva
i protagonisti della sua vita. Erano giornate meravigliose quelle, Flefy le attendeva con ansia. Domenica pomeriggio. Sapeva
che era l'unico momento della settimana che poteva trascorrere con il suo papà.
Giocavano, ridevano e Flefy imparava tanto della vita. Imparava non solo i nomi
dei fiori o a riconoscere le verdure selvatiche; imparava il nome degli alberi
e degli animali; imparava ad amare ed essere amato; imparava a voler bene e a
rispettare la natura, proprio come avrebbe fatto con gli uomini. Si sentiva
protetto Flefy. Sapeva e sentiva che quando era con lui, quando la mamma
dipingeva di loro, non poteva succedergli nulla anche se c'erano lampi e tuoni
fortissimi da scompigliare i suoi boccoli dorati, far volare la tela della sua
mamma e far scappar via, come uno scoiattolo, il cappello marrone del suo papà.
Nulla poteva accadere perchè lui era al sicuro. Era con loro.
Flefy
si fermò! Quella nuvola era troppo grande per poter far finta di nulla. Riprese
a correre diretto verso un albero, quell’ albero. L'albero della sua mamma. Lo
riconobbe perchè era l'unico con dei fiori di un colore poco definito. Celeste,
grigio, violetto. Quei fiori erano tutti questi colori. Lo vide. Si fermò. Abbracciò
il suo tronco sperando di trovare il profumo della sua mamma o il calore degli
abbracci del suo papà. Ebbe la sensazione di sentirli, di sentirli vicini. Chiuse
gli occhi per assaporare quel momento, sperava forse che il tempo potesse
correre, correre, correre veloce. Veloce e forte, tanto da riportargli i suoi
genitori e quei momenti. Una domenica pomeriggio. Una ancora, almeno una.
L’ultima. Viverla sapendo che sarebbe stata l’ultima, per avere il tempo di
dirgli almeno una volta vi voglio bene, almeno una volta grazie. Ma il vento, lo
stesso vento che gli aveva fatto il solletico, questa volta non fu molto carino
con lui. Spostò un ramo di quell'albero, tanto materno, e un raggio di sole gli
impedì di tenere ancora gli occhi chiusi facendo terminare così il suo sogno, quella
illusione fantastica. Le sue braccia si staccarono da quel tronco per coprire i
suoi occhi poi si buttò per terra e
iniziò a piangere!
Erano
passati tanti anni da quella misteriosa scomparsa, esattamente dieci, e
nonostante per tutti Flefy restava il piccolo del paese era ormai un
giovanotto, un giovanotto che non aveva mai raccontato a nessuno dei suoi
genitori e che fino a quel momento era riuscito a tenere dentro di se, nella
sua memoria, in un cassetto custodito gelosamente ma messo in una posizione
troppo scomoda per essere aperto, la sua storia, i suoi ricordi. Aveva messo
via anche le foto, pur di non ricordare, pur di mentire a se stesso fingendo di
star bene… fino a quel giorno! C’era riuscito fino a quel giorno.
Il
vento era forte, forse troppo forte, tanto che il suo il pianto fu portato via
lontano
anche dalle sue orecchie forse era il suo modo per chiedergli scusa forse
voleva far qualcosa per Flefy, in fondo era colpa sua se il piccolo aveva visto
il sole. Era colpa sua.
Il
pianto di Flefy giunse a Otto.
Otto
si spaventò perché come suo solito a quell’ ora faceva un bel sonnellino. si
alzò frettolosamente, non capiva bene; si guardò intorno e decise di bere
dell'acqua… forse era un incubo, ma sentiva ancora quel suono strano allora
mise tutto il suo muso nell'acqua, lo tirò fuori, e suo malgrado capì che non
si trattava di un incubo, era la realtà. Alzò le orecchie, o meglio l'orecchio
destro...dal sinistro non ci sentiva molto bene, e si rese conto che quel
suono strano era un pianto; il pianto di
un bambino spaventato. Non sapeva che fare, iniziò a girare su se stesso (forse
era il suo modo per riflettere, concentrarsi). Si fermò. Prese una decisione: aveva
capito perfettamente la direzione da prendere e aveva intuito anche chi poteva
essere. Raccolse una coperta stesa proprio davanti alla sua cuccia e iniziò la
sua corsa verso Flefy.
Otto
correva e iniziò, con affanno, a cercare il piccolo. Non conosce nulla. Non sa
nulla. Sa solo che Flefy ha sofferto molto, troppo.
Eccolo!
Sotto un albero…ha una posizione fetale, rannicchiato per terra e con quel
corpicino sollevato dai sussulti del pianto. I suoi capelli dorati mossi dal
vento. Sembra piccolo.
Otto
gli si avvicina con molta calma e nel frattempo prende fiato. Ha corso, Otto e
ora deve riprendersi…
Si avvicina, non abbaia, gli si siede accanto
senza dire nulla. Poggia la coperta rossa e verde e si occupa solo di far
sentire a Flefy la sua presenza, il suo calore.
Quell’albero
materno ora accoglie sotto i suoi rami entrambi…
Toccato
da quella coperta e riscaldato alza la testa e si ritrova accanto un cane. Si
guardano fissi negli occhi, senza dire nulla. Flefy ha voglia di accarezzarlo,
di sentire sotto le sue mani la sensazione di un contatto… dare affetto per
prenderne molto di più.
Ne ha
bisogno in quel momento, da quel momento, trova il coraggio per ricominciare ad
amare, a voler bene a sentirsi amato perché Otto continua a guardarlo negli
occhi e cerca di rassicurarlo, alza la testolina e la gira un po’ di qua un po’
di la è buffo e tenero allo stesso tempo e Flefy riesce a liberare il suo
braccio dalle sue stesse membra e accarezza otto. Non lo strapazza sono carezze
delicate e cadenzate. Restano li per qualche ora il tempo di abituarsi l’uno
alla presenza dell’altro. Si alzano, il vento si è quasi completamente fermato.
Flefy
ripiega la coperta rossa e verde e con un cenno del capo invita Otto a
seguirlo, prende la sua bici e insieme tornano a casa. Ormai il panificio è
chiuso e tornano insieme guardando quel paesaggio che ha colori nuovi, più nitidi.
Flefy
ha ricominciato ad amare, ad amarsi, a volersi bene e finalmente inizia a
raccontare di se a Otto. Non è molto ma dopo si sentirà più libero…forse aveva
solo paura di ritornare a vivere.