martedì 28 gennaio 2014

A servizio. Il mio sguardo su "Il Servitore di due padroni" di Antonio Latella




Il pubblico viene servito da pietanze gustose al palato ma che andrebbero meglio impiattate.
Proviamo ad andare con ordine. Non è mai facile andar con ordine, lo è ancor meno con questo lavoro: Il servitore di due padroni, regia di Antonio Latella. Difficile non nella comprensione ma nell'ordine, appunto.
Un miscuglio di cose e la sensazione di essersi trovati di fronte ad un rigurgito di pensieri, azioni e necessità emotive.
I rigurgiti emotivi sono quelli che prediligo, ma perché diventino "opera teatrale" andrebbero rimaneggiati, rielaborati. Cucinati meglio per essere presentati/abili. 
Provo a fermarmi e a cercar di andare con ordine.
Ordine. Sì, ma quale?
Parto dal mio antefatto.
Ho saputo, come molti di noi, tempo fa di questo lavoro.
Ho ragionato molto sul titolo.
Ho pensato sin da subito che fosse stata una scelta di spendibilità e vendita. Un po' continuo a pensarlo. Continuo ancora a credere che se si fosse utilizzato un "liberamente tratto", o cose simili, sarebbe stato tutto segnato dal momento cioè dallo scambio, che ci si auspica sempre, tra chi vive il palcoscenico e chi abita il proprio (la poltrona).
Ho poi letto le critiche di chi, prima di me, l'ha visto e/o vissuto, l'abbandono costante di una parte del pubblico e mi sono domandata: errore negli spettatori che non hanno apprezzato o errore di chi, mantenendo il titolo originale dell'opera di Goldoni, ha creato facili attese disilluse?
Così facendo, il pubblico affezionato alla lettura di Giorgio Strehler e all'idea acquisita profondamente su Arlecchino, bé è possibile si sia sentito derubato di un ricordo; chi invece arrivava "puro", senza rimandi né associazioni (spesso le nuove generazioni o chi possiede la rara capacità di cercare l'oltre, sempre) ne ha goduto. 
Detto questo dico che a me l'Arlecchino di Latella, interpretato da un eccellente Roberto Latini, è piaciuto molto ed ho trovato goduriosa la scelta del tema delle maschere raccontandone la presenza con l'assenza.
Apice dello spettacolo non è lo smantellamento scenico, ma la direzione della maschera-burattino Latini ad opera del resto della compagnia. Gli altri appaiono sulla scena come registi prima e spettatori poi (autoreferenziali, no?), tenendo in vita il rimando al copione proseguendo così la linea già tracciata durante tutto lo spettacolo: l'utilizzo del telefono come voce fuori campo all'interno dello spazio di scena.
Questo trovo essere il mio punto dal quale parto e verso il quale tendo in relazione al teatro come massima espressione della vita stessa.
Il teatro che si toglie la maschera scimmiottando la presenza della stessa in quel movimento comune, in quel perdersi. Un punto, e non il punto, di vista proposto. 
Interessanti intrecci ma con ipotesi drammaturgiche non abbastanza sviscerate come quell' Arlecchino a volte Federigo che con Beatrice e Florindo paiono, ad intermittenza, in accordo per impossessarsi della dote di Clarice. E poi non se ne sa più nulla. 
E ancora l'ipotesi dell'incesto. Latella in una intervista dichiara che tale incesto è presente nel testo del Goldoni. Continuo a credere esser una interpretazione del regista. Legittima, sia chiaro ma un'interpretazione. Ognuno legge ciò che è scritto partendo dalla propria realtà, dal proprio mondo ed io, leggendolo con il mio, quel passo non lo percepisco affatto come dichiarazione di un incesto:
"Brighella: Siguro che lo conosseva. So stà a Turin tre anni e ho conossudo anca so sorella. Una zovene de spirito, de corazo; la se vestiva da omo, l'andava a cavalo, e lu el giera innamorà de sta so sorella. Oh! chi l'avesse mai dito!"
Brighella dichiara di conoscere Federigo, avendo lavorato a Torino e racconta anche di aver conosciuto sua sorella. Una giovane di spirito, coraggiosa, che si vestiva da uomo e andava a cavallo e suo fratello le voleva molto bene. Quel "e lu el giera innamorà de sta so sorella" mi fa pensare all'amore profondo che lega due fratelli e che quindi, forse, Federigo non apprezzava Florindo perché non lo reputava all'altezza di sua sorella. Gelosia pura, purissima e quindi mortale. 
E chissà quante altre letture, quanti altri sguardi diversi.
Mi sono permessa questo piccolo gioco perché ci si ricordi, tutti, che diamo un punto di vista e che non ne esiste uno solo e questo vale tanto per i registi quanto per gli spettatori.
Bastava quel "liberamente tratto", la forza dei nomi di Artisti pieni e il nome di un regista, Latella appunto, tra i più apprezzati non solo in Italia.
Un errore di comunicazione, l'inutilità di un confronto che gli si ritorce contro come il rischio di far perdere, tra le altre, l'emozione prodotta dal monologo struggente di Smeraldina dal proscenio. 
E' come se questo lavoro di Latella rispondesse alla profezia che si auto-adempie cara alla sociologia e alla psicologia.
Si potrebbe riprendere il tiro per impiattare meglio una pietanza gustosa al mio palato.
Siamo tutti al servizio di più padroni; siamo tutti al servizio di due padroni: l'arte e gli spettatori. Basterebbe cangiar le regole contrattuali.

Foto di scena Brunella Giolivo

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