"Ci sono storie che non si possono raccontare. Ci sono storie che non si possono raccontare ma ne hanno bisogno".
Mi disse questo guardandomi negli occhi mentre i suoi erano lucidi e pieni di lacrime. Abbozzò un sorriso rassicurante. Era in pena per me, per il dolore che avrei provato nell'ascoltarla.
Le presi la mano che teneva sul tavolino del nostro bar preferito: quello che nei muri conservava tutte le nostre confidenze.
Non sapevo di cosa avrebbe parlato. Era il nostro primo incontro dopo un suo lungo viaggio. Si era trasferita in un'altra città, in un'altra nazione, in un altro continente e questo ritorno era inaspettato.
Quelle stesse mura avevano accolto, con me, tutto il suo entusiasmo legato a quella partenza.
Ci siamo scritte tutti i giorni e chiamate appena potevamo.
Questo all'inizio, poi con il trottare degli impegni quotidiani ci "limitavamo" ad un "ti voglio bene" e ad un "dimmi che va tutto bene" per rassicurarci, per ricordarci che dall'altra parte del mondo c'era chi ci amava e voleva il nostro bene.
Solo quando iniziò il suo racconto, mi resi conto che i miei "dimmi che stai bene" erano una trappola comunicativa, un modo egoista per essere rassicurata, per non voler ascoltare altro che belle notizie.
Ci conoscevamo. Conoscevo bene i suoi occhi. Conoscevo la sua anima. Sapeva che non poteva mentire e non voleva farlo perché ne aveva bisogno e ne avevo anch'io.
Continuavo a tenere la sua mano mentre tremava e le lacrime scendevano da sole.
Attesi, guardandola negli occhi e ritmando il mio respiro per rassicurarla, che la sua bocca fosse pronta a dire.
Quando le parole abbandonano la bocca i pensieri prendono forma; hanno consistenza.
"Non so come sia stato possibile ma è successo a me. Non so come ho permesso che accadesse ma è successo a me. Solo dopo aver trovato la forza di guardarmi allo specchio, di guardarmi negli occhi, ho capito che le violenze ripetute che ho subito erano tali. Solo quando ho avuto il coraggio di guardarmi negli occhi ho rivisto la mia anima e quella che sono sempre stata, quella che avrei voluto diventare".
Non chiesi nulla e non sapevo cosa dire.
Mi alzai e la tenni tra le mie braccia.
La tenni a lungo così e versammo tutte le lacrime che il nostro corpo conteneva. Le sussurrai un "ci sono" e il suo "sì" era pieno di sollievo e dolore.
Mi consegnò una lettera e asciugandosi le lacrime, con uno dei suoi speciali fazzoletti in cotone ripiegati a triangolo e con disegni fatti da lei, mi disse: "come vedi non riesco a parlare, ma ho bisogno che tu sappia. Ho bisogno di ripartire. Ho bisogno di te".
Guardò l'orologio, mi salutò e andò via.
Seguii il suo corpo e la sua ombra fino a che svanirono oltre la porta.
La lettera era chiusa in una busta e al posto del mittente c'era un "io" e al posto del destinatario un "per me".
Dopo tanti anni ancora io e lei.
La strinsi nella mano sinistra. Posai le mie cose in borsa, pagai la tisana e andai via anch'io.
Per tutta la strada che percorsi per raggiungere casa, ebbi la sensazione di aver qualcosa di vivo, nella mia borsa, che doveva respirare, prendere aria e il mio passo fu così veloce che, nonostante il gelo, arrivai a casa sudata.
Tolsi la borsa che non lancia come mio solito sul divano ma posai con delicatezza e aprii la cerniera.
Tolsi la giacca e iniziai a leggere quella lettera adesso liberata dalla busta.
"Sono partita ed ero felice. Ora eccomi di ritorno con un dolore talmente grande da non riuscire più a respirare senza dovermi tenere lo stomaco con il pollice della mano destra. Come se bastasse lui a prendere e alzare quel dolore che trattiene i respiri.
Sono stata felice, come ti ho detto senza mentirti, solo durante le prime settimane, poi ho scoperto l'inferno che è assai diverso da quello che descrivono. Né fuoco, né fiamme, né calore ma bianco come il vuoto e le mura di quella casa.
Ho subito una ripetuta violenza psichica atta ad annullarmi.
Né ferite, né lividi, né ospedali, né denunce possibili perché l'anima non è un organo e non ha voce per essere ascoltata e perché qualcuno possa crederci ed io non sarei stata neanche in grado di spiegare. Erano come lame affilatissime, sottili e nascoste, come quelle sfumature di colori strani che solo facendoli vedere l'altro capisce di che si stratta. Come potevo prendere l'anima e il suo sangue e fartelo vedere? Non ci credevo nemmeno io. Avevano smesso di essere lame ed erano diventate normalità. Era sbagliato ogni mio pensiero e ogni mia azione anche quando erano ripetizione di ciò che avrebbe voluto. Era sbagliata ogni cosa. Il mio corpo, il mio pensiero, i miei sentimenti. Ho provato a capire chi volesse al suo fianco per poter recitare il miglior personaggio possibile e la miglior interpretazione che io abbia mai portato a teatro. Ho firmato la mia condanna a morte: non sapevo più chi fossi davvero; avevo consegnato tutto e detto, così facendo, che quel ruolo poteva ricevere indicazioni registiche continue. Senza fine.
Avevo consegnato le chiavi di tutta me stessa.
Ero insicura su tutto, non sapevo più come si sistemava un letto, io che amo fare gli angoli e me ne ricordo solo ora mentre ti scrivo e piango perché a fatica sto recuperando ciò che ero e i ricordi mi aiutano; non sapevo più cucinare, avevo paura di sbagliare le dosi, non ricordavo più le procedure, io che avevo ricevuto apprezzamenti per la mia cucina anche da uno chef stellato; non sapevo più esprimermi perché quando provavo a parlare non era mai chiaro ciò che volessi dire e non ero più in grado di recitare, di farlo a teatro.
Ecco Ele, quando ha toccato il Teatro ho iniziato ad avere paura perché questa, come sai bene, è sempre stata la mia unica forza, perché su quelle travi ho sempre sentito di poter godere del mondo e di me stessa nel mondo.
Non ero più io perché non sapevo più cosa significava esserlo.
In questi mesi ho rifiutato molti lavori perché non mi sentivo all'altezza di nessuno di questi.
Un giorno, per caso, mi è tornato tra le mani un copione tra quelli che avevo in casa. Era l'unico che sulla copertina aveva un disegno che accompagnava un titolo che mi ha incuriosita "Anemos e Soma".
L'ho letto, parlava di me, di quello che stavo vivendo. Mentre le battute correvano, mi muovevo nella stanza e piegavo le mie cose, le mettevo in valigia e finito il testo ero pronta per andar via.
Questo spettacolo parla della violenza psicologica che lascia segni indelebili che non vedrà mai nessuno. Ho deciso di ripartire perché vicino allo specchio ho visto il nostro portafoto. E' stato un tuffo nei miei ricordi e in ciò che sono. Ho sorriso e ho immortalato questo sorriso guardandomi allo specchio. Non sorridevo da tempo.
Riparto da qui, riparto ancora una volta con te che farai da regia a questo spettacolo.
Lo farai, vero?
Tua Ele"
Non ricordo ancora chi ero e cosa volevo essere, recupero tutto giorno dopo giorno per capire chi sono.
Il mio incontro in un sogno, la mia lettera, il teatro, il mio spettacolo, scritto da me.
Ci sono storie che non si possono raccontare ma ne hanno bisogno.
da "storie allo specchio" di Nunzia Barrai e Airoldo Fortuna
25 Novembre 2014
Contro OGNI forma di VIOLENZA